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Mag 03

Angela

  • Maggio 3, 2020

AGRICOLTURA EROICA: “è una delle esperienze più caratterizzanti del modello agricolo italiano, proprio perché unisce il saper fare spesso tradizionale con paesaggi difficili, complessi, che richiedono ancora una cura strettamente manuale. Sono un patrimonio culturale, ancora prima che economico”. (Maurizio Martina) EROE: s. m. [dal lat. heros -ōis, gr. ἥρως]. – 1. Nella mitologia di vari popoli primitivi, essere semidivino al quale si attribuiscono gesta prodigiose e meriti eccezionali; presso gli antichi, gli eroi erano in genere o dèi decaduti alla condizione umana per il prevalere di altre divinità, o uomini ascesi a divinità in virtù di particolarissimi meriti. 2. estens. a. Nel linguaggio com., chi, in imprese guerresche o di altro genere, dà prova di grande valore e coraggio affrontando gravi pericoli e compiendo azioni straordinarie […] (Dizionario Treccani)

UN TERRENO TUTTO PER SÈ

– Ste nu terren ca s venn. Nu amic mᵊje u’ a vist, disc ca ia bell. – Na, addò ia? – A Ruvo. – E che olive stanno? – Coratina, hann ditt, forse quacche arv d nostrana. – E sciam, così mi rendo conto. – Uhm, nan ia facil. – E perché? – Vabbù Angel c’ama scᵊje ama disc ca tu si migghierᵊm o cugginᵊm. – In che senso scusa? – Ca chir c vedᵊn na femᵊn s scettᵊn n’ gudd cu prizz, po ia megghiᵊ, sind a meic.1 Fingermi moglie o cugina. Questo mi chiedeva di fare M. che sorrideva sornione davanti alla mia espressione strabiliata e interrogativa, uno di fronte all’altro seduti, ai lati del tavolo della mia cucina. Sind a meic, continuava a ripetere, c chir vedᵊn na femᵊn s’ammenᵊn ngudd, r canosc l contadein, sacc accom sᵊim.2 So come siamo. Non capivo se fosse una dichiarazione di colpevolezza, l’espressione di un sentimento di rassegnazione o boria malcelata, di quella che fa intendere parla, parla tu, femmina e neofita, vai dietro alle belle parole, ai facili entusiasmi, vedrai… Vedrò. Io, però, allungherò il collo per vedere meglio e allontanare lo sguardo dalla punta del mio naso. Punterò alla luna e non al dito. Voi, caro M., nel frattempo, continuerete a lamentarvi, a incolpare ora la Tunisia ora la Toscana, ora il governo nazionale, poi quello regionale, infine quello locale, ora le associazioni 1 – C’è un terreno che si vende, l’ha visto un amico mio, ha detto che è bello. – E dov’è? – A Ruvo. – E che olive stanno? – Hanno detto Coratina, forse qualche albero di ogliarola. – Andiamo, così mi rendo conto. – Non è cosa facile. – Va beh Angela, se dobbiamo andare, dobbiamo dire che sei mia moglie o mia cugina. – In che senso, scusa? – Se vedono una donna, aumentano il prezzo, è meglio così, ascoltami. 2 Ascoltami, se vedono una donna aumentano il prezzo, li conosco i contadini, so come siamo. di categoria ora l’Europa. Troverete sempre qualcuno a cui addossare la responsabilità delle vostre viltà. Anche io sacc accom sit3, cosa credi. Mio padre era un contadino e così il padre di mio padre e il padre del padre di mio padre. E stesso destino per zii e cugini. Un groviglio di parentela e sentimenti acri da cui Giovanni si è sempre preoccupato di tenerci lontano. Come lontano, voleva che restassimo dalla terra. Ci ha mandati ovunque, il più lontano possibile. Io sono finita a studiare in Australia, pensa. Mio fratello è diventato un musicista. E, ironia della sorte, vedi dove siamo tornati. – Comunque se vuoi andare, famm sapa’. – Vabbù da’, mo vedeim. Teniamolo sott’occhio sto terreno e po’ s penz. 4 Al terreno, poi, io non c’ho più pensato ma, ovviamente, ho pensato a tutto il resto. Non perché il dialogo con M. fosse un’assoluta novità. Di tono diverso, ma altri ve ne erano stati prima, con altre persone, in altri contesti, tutti accomunati da questo immaginario zoppo, in cui la campagna, la sua gestione, non è cosa per donne. Il linguaggio che utilizzava M. era, è, quello di questo territorio e della cultura che lo permea e con cui devo fare i conti se voglio restare qui e portare avanti il mio progetto. Devo armarmi di pazienza, spuntare le lance, ammorbidire i toni e … essere realistica: nel qui e ora di questi luoghi, la questione di genere non occupa il primo posto dell’agenda. Piuttosto, si intreccia ad altri nodi o vi corre parallela. In questi tre anni, molto ho osservato e riflettuto e, per quanto abbia incrociato sulla mia strada qualche persona, poche, in verità, pochissime, con cui imbastire un ragionamento, mi resta sempre una sensazione di asfissia, di sguardo corto. Il dito, appunto. Posso dunque dire di fare un’agricoltura eroica? No. Non nell’accezione che ne ha dato l’ex ministro Martina. Non mi muovo all’interno di un paesaggio difficile, complesso e che richiede una cura manuale. Ma neanche nell’accezione più letteraria del termine, lì dove l’eroe/l’eroina è colui/colei che compie azioni straordinarie e va incontro a gravi pericoli. A voler cercare una definizione, direi che la mia è un’agricoltura di resistenza, tenacia e resilienza. Voglio provare un sentimento di orgogliosa appartenenza a queste terra, a questo paesaggio e a questo territorio. Basta con la desolazione e l’indignazione alla vista dei superintensivi, dello sradicamento feroce degli olivi, dello stato di abbandono di interi appezzamenti, della visione utilitaristica della terra che ha fatto di questo un territorio assuefatto ai finanziamenti pubblici, incapace di futuro, alterato negli equilibri economici. Ambisco a fare un ottimo extravergine ma non mi accontento di chiudermi nei confini dei miei terreni. Non sono andata via dalla Toscana, dopo nove anni e tanti dubbi, per ripiegarmi nell’autorefenzialità del produttore di qualità. Credo in un’olivicoltura dove le braccia si accompagnino alle idee, non le mie, le tue o le sue ma le nostre. Dove ci sia spazio per una riflessione aperta, collettiva e condivisa che veda protagonisti i produttori, dove si creino alleanze e si scelgano gli interlocutori. Mi è stato già detto, con tono condiscendente, che no, non è fattibile, che gli aggettivi collettivo e condiviso non appartengono al vocabolario del mondo agricolo e che l’olivicoltura, bellezza, fa parte di quel mondo. Oh ma guarda che sciocca, non me ne ero mica accorta. Mi giudichi una stupida se continuo a pensare che questa sia l’unica via, bellezza? E allora io dico, facciamolo noi. Iniziamo noi a essere braccia e idee, con le nostre facce, le nostre storie e i nostri oli. Facciamo che un gruppo di produttrici, da nord a sud, si prenda la responsabilità, ché è di quello che stiamo parlando, dell’azione e dell’errore (perché i due camminano a braccetto). Facciamo rete noi. Ma non di quelle da pacche sulle spalle e strette di mano che puntano alla richiesta di fondi e alla 3 So come siete. 4 – Comunque, se vuoi andare fammi sapere. – Va beh, vediamo. Teniamolo sott’occhio questo terreno e poi si pensa. partecipazione ai bandi, e lì dietro, sempre in agguato, le spinte individualistiche che trasformano le opportunità in opportunismi. No. Facciamo che diventiamo portatrici di bisogni, che nascono da mancanze, e portatrici di desideri, che attivano energia motivazionale e processi creativi. Già le vedo le facce dei piccoli M. che si nascondono in ognuno di noi e borbottano: non è un gioco da ragazzi, non è un gioco da ragazzi, non è un gioco da ragazzi … Appunto. Facciamolo diventare un gioco da ragazze.

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— Aristotele, Costituzione degli Ateniesi

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